Paese che vai, usanze che trovi

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Vivere su un’isola vuol dire essere circondati dall’acqua. Vivere di fronte ad un porticciolo implica un contatto constante con il mare con le sue onde, con quello spiro salino che per me, anche nei giorni più burrascosi, è sinomino di vitalità. Nel tratto di mare che ci separa dalla terra ferma e dalla miriade di isole che ci circondano le mareggiate sono rare, il mare si protende verso un orizzonte breve nel quale emergono scogli ed isolette. Le rocce e le insenature sono testimoni degli eventi geologici più recenti, intagliate dai ghiacciai in ritirata durante l’ultima glaciazione. Solchi più o meno profondi ricordano che in un tempo geologicamente piuttosto recente queste terre emerse erano coperte dai ghiacci.

Cattle Point

 

Nel tempo l’azione del vento e degli agenti atmosferici hanno smussato gli angoli delle rocce, la vegetazione ha fatto la sua scomparsa, ma qualcosa è rimasto delle epoche preistoriche. Indovinate un po? Ebbene sì, un certo frescolino è di casa tra queste insenature. Se a circa mille chilometri più a sud le correnti dissuadevano i prigionieri di Alcatraz dal gettarsi nei flutti per conquistare l’agognata libertà, qui al nord potete immaginare che temperature raggiungano le acque. Durante i mesi estivi, si oscilla intorno ai 10 gradi, abbastanza da intimorire residenti e villeggianti, soprattutto quando questi ultimi hanno origini mediterranee. Nonostante ciò la fantasia umana non si arrende e la muta integrale permette di gettarsi tra i flutti e apprezzare la bellezza delle coste e dei fondali. E’ un’esperienza che non ho osato provare perché le mie caratteristiche mediterranee, con il tempo si sono rafforzate e da qualche anno a questa parte sono diventata quasi più freddolosa di mia madre. Invece di temprarmi, divento sempre più fifona per quanto riguarda il clima, con l’eccezione di alcuni momenti di gloria, in cui riaffiora lo spirito di avventura dei vecchi tempi, quello di cui si ricorda Miss Fletcher.

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Quel che non ammazza ingrassa, quindi invece di temprarmi le temperature polari alle quale sono stata esposta per anni e anni in diverse zone dell’America settentrionale non mi hanno trasformato in una sciatrice provetta o in un’amante degli sport estremi, ma piuttosto in un topo di biblioteca sempre intirizzito e, di conseguenza, attratto da caffè, muffin e scones che ormai fanno parte del tessuto adiposo e scorrono nel flusso sanguino. Non pensate adesso che mi sia trasformata in una matrona, nient’affatto, se non altro in presenza di una popolazione in gran parte di origine scandinava, ho subito una stranissima metamorfosi della quale non sarei mai stata in grado di immaginare le conseguenze.

Dirò, fra parentesi, che da quando sono approdata su quest’isola non mi sono mai sentita tanto scura, etnica e bassetta. Insomma una donna lentigginosa di un metro e settanta con un peso che supera abbondantemente i sessanta chili nel suolo italico si sente un donnone, soprattutto se ha la malaugurata idea di entrare in certe catene di negozi in cui l’anoressia sembra essere la conditio sine qua non per potersi infilare in qualche capo senza far saltare le precarie cuciture. Provarmi un costume dalla Golden Point o dagli Intimissimi era un supplizio, qui invece, i costumi corazzati mi vanno a pennello e visto che sono in gran parte pensati per pelli di alabastro non mi trovo mai a dire “il colore non mi dona!” Ebbene da donna alta e robusta mi sono trasformata quasi in petite. Confesso che quando nei negozi mi suggeriscono di guardare la sezione per donne basse, mi offendo un po’. In ogni caso, vista la media della popolazione, compro magliette taglia small, spesso devo farmi accorciare i pantaloni e, meraviglia delle meraviglie, trovo le scarpe in liquidazione perché da queste parti il 39, 40 vanno per la maggiore. Ah, dimenticavo, sono diventata una brunette, almeno così mi hanno detto un paio di persone, mio marito incluso. La mia pseudo abbronzatura di un beige chiaro che farebbe inorridire mia madre, amante della tintarella, tradisce le mie origini mediterranee. Insomma ancora un po’ e mi trasformo in Calimero, non per mancanza di sapone, ma in confronto alla popolazione locale. In tanti anni non mi era mai sfiorata l’idea di poter essere considerata una persona scura, anzi per anni mi sono crucciata per il fatto di non abbronzarmi e di sembrare sempre una mozzarella. Qui invece ho subito una metamorfosi che non smette di sorprendermi. Ho scoperto di essere “etnica”!

Esploratrice

Paese che vai, usanze che trovi.

Parlavamo delle spiagge, cosa si fa in spiaggia nei dintorni di Victoria? Direi in primo luogo che il costume sia optional; si può stare completamente vestiti per evitare in primis il sole, in secondo luogo il freddo. Il sole rappresenta un acerrimo nemico per chi d’altro canto si ingozza di pasticche di vitamina D perhé i raggi solari sono temutissimi, quindi anche sulla sabbia maglietta e cappello stile Indiana Jones per i sudditi di sua maestà. Cosa si fa una volta giunti sul litorale? I più previdenti, soprattutto se con pargoli al seguito, montano una piccola tenda con tessuto antisolare. I fanciulli più grandicelli si avventurano nell’acqua, di solito in compagnia del padre ed acquisiscono toni bluastri quando riemergono completamente dal mare. Non che si tuffino, si limitano a mettere i piedi nell’acqua e tutt’al più giocano con qualche tronco galleggiante, sempre muniti di maglietta protettiva.

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“Be sun smart”, recitano i cartelli a fianco delle docce e dei servizi nelle spiagge più gettonate!

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Il mare se lo gode chi ha un’imbarcazione, anche solo una canoa o un “paddle surf”, una specie di surf senza vela sul quale stare in piedi e muoversi grazie ad un largo remo. Non so come sia stato tradotto in italiano e se sia stato importato dalle nostre parti, ma a me sembra troppo pericoloso, se si cade in acqua è finita.

Date le premesse non sono molti quelli che trascorrono le giornate estive in riva al mare. Ecco con questa bell’acqua cristallina mi butterei volentieri se non sapessi che l’organismo umano non è stato concepito per affrontare un tale shock. IMG_20140726_161817

Basta fare duecento metri per scoprire chi si sollazza in queste acque.

Tre foche

Proprio loro, le foche, sempre accompagnate da un nutrito stuolo di turisti, soprattutto giapponesi pronti ad immortalarne le prodezze.

 

Non solo fiori

Ai Butchart Gardens non ci sono solo fiori e piante, ma anche due totem per ricordare la cultura indigena. Uno degli intagliatori ha al suo attivo alcuni dei totem di Cowichan, per cui riconoscerete forse lo stile. Anche in questo caso è sormontato da un’aquila  le cui ali si protendono verso il cielo.IMG_20140725_111947L’altro era assediato da un gruppo di turisti per cui ho desistito. La densità dei turisti incominciava a darmi sui nervi, abituata come sono ormai al silenzio e alla solitudine di questi spazi immensi. Certo non è mai come andare alla spiaggia libera alla domenica, ma francamente mi sono sempre sottratta ai bagni di massa. Verso mezzogiorno era tutto un brulicare di gente che probabilmente si era alzata tardi e finalmente si metteva in marcia. Ovviamente tutti provvisti di macchina fotografica si facevano immortalare tra i fiori. Ho persino fatto la mia gaffe dicendo ad un omone con famiglia extralarge che non sapevo se la foto che gli avevo fatto gli andasse bene perché, cito “You look so small” intendevo dire che mi sembrava che la foto fosse scattata troppo da lontano, ma il gigante amico mi ha risposto “Small, me? No, it’s fine!” Contento lui!

Avrei avuto bisogno di un obiettivo più sensibile per captare le forme e le dimensioni della fauna, dall’infinitamente piccolo alla vastità di certi alberi.

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Nelle peregrinazioni tra aiuola e aiuola ho cercato di immortalare una splendida sequoia, ma le dimensioni dell’albero erano davvero immense e il mascarpone, ossia lo smartphone, non si è stato all’altezza della situazione. Allora ho optato per fiorellini di vario tipo con la speranza di scoprirne poi il nome, ma finora l’identità delle composizione floreali non ha svelato il suo segreto. Accontentiamoci di guardarli.

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Giunta al giardino giapponese ho desistito. Troppa gente e francamente iniziavo ad avvertire una certa stanchezza. Tornerò un altro giorno. Per ora vi lascio con il gioco di forme che compongono questi tronchi potati ad hoc per creare quest’intricato ricamo.

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Arriviamo in fondo e tra il frondame appare la baia, Brantwood Bay, un fiordo che divide la penisola di Saanich dal resto dell’isola. L’avevamo intravista dal Malahat qualche settimana fa, vi ricordate?

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Sul mare tutto è calma e silenzio, solo qualche imbarcazione, il verde e l’azzurro e sullo sfondo Salt Spring Island.

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Giardini incantati

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Proseguiamo la nostra passeggiata per i Butchart Gardens alla ricerca della bellezza “naturale” che questa ex cava di calcare mostra ai suoi visitatori. Dove eravamo rimasti? Sì, ora ricordo, ammiravamo la flora che cresce rigogliosa nell’ex cratere centrale. Si accede al belvedere, affollato di turisti asiatici ed europei, e si rimane a bocca aperta contemplando quella natura miracolosamente resuscitata dall’intrapprendente Mrs. Butchart oltre cent’anni fa. Da allora generazioni e generazioni di abili giardinieri si sono susseguiti nell’opera di ricoprire di verde e di mille colori ciò che un tempo era stato distrutto. E sullo sfondo le conifere maestuose creano una cornice idillica.

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Smbra un giardino incantato. Non poteva mancare questa splendida casetta dalla quale osservare il panorama o ricordare i paesaggi incantati delle fiabe.

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Sotto di noi una serie di fiori incorniciano l’aiuola centrale. E’ un’esplosione di colori che varia con le stagioni.

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Nelle zone meno esposte al sole incontriamo felci lussureggianti e piante dall’aspetto vagamente preistorico, piante dalle foglie enormi, veramente extralarge, che immaginiamo potessero supplire ampliamente alla mancanza di vesti ai nostri predecessori. In Liguria era difficile immaginare con cosa si fossero coperti Adamo ed Eva, ma qui vedo che ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta, facendo ovviamente attenzione che non ci siano delle spine. Ecco cosa cresce nel sottobosco.

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Tra le piante si aggirano composizioni floreali che ricreano le sagome degli animali del bosco: ecco dei coniglietti mimetizzarsi tra le foglie.

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Giungiamo al roseto dove scopro mille varietà provenienti da ogni angolo del pianeta, ma soprattutto dall’Inghilterra, dalla Germania e dagli Stati Uniti.

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Peccato che i giardinieri dei Butchart non fossero stati a Nervi perché sicuramente anche lì avrebbero trovato delle magnifiche varietà da trapiantare nel roseto. Ho letto con attenzione tutte le targhette sperando di trovare una specie italiana, se non ligure, ma niente da fare.

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Di italiano troviamo questo pozzo di artigianato fiorentino. E’ il pozzo dei desideri, a mio parere un po’ umile rispetto alle piante che lo circondano.

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Anche la fontana collocata al centro di una zona ombreggiata è made in Italy.

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Non mi impressiona più di tanto, forse perché mi vengono in mente le piazza romane con il loro tripudio di marmi e di statue e per non cedere al cinismo o alla nostalgia sposto lo sguardo verso altri orizzonti.

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Giungo così al laghetto che ha soppiantato la parte più profonda della cava, là dove una serie di getti d’acqua creano forme cangianti dall’aspetto leggermente disneyano o fallico, a seconda del punto di vista.

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Li fotografo comunque pensando che gli ideatori dei giardini con gli anni si siano spinti un po’ verso il kitch.

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Ecco i risultati. Ma se nell’epoca barocca era “del poeta il fin la maraviglia”, gli ideatori dei giardini si impegnano a mantenere all’erta il visitatore, sorprendendolo con composizioni floreali di tutti i tipi e con varietà insolite di piante più conosciute, come questi enormi gigli che ammiriamo estasiati.

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Se i grandi si dilettanto a scrutare le piante e i fiori, i più piccini rimarranno incantati dagli “animaletti” verdi sparsi per i giardini. Ecco qui una famigliola di elefantini che in perfetto stile British è pronta per il tea time!

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Credo che sia anche una strategia commerciale per ricordare ai turisti che possono fare anche loro una sosta per rifocillarsi in un coffee shop o in un ristorante self-service. Noi cediamo alla tentazione di un cappuccino che aggiunge una nota amara a tanta bellezza. Insomma è una ciofeca, come direbbe Totò, per fortuna che ci distraiamo subito con altre vedute meravigliose.

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Quando giungiamo al giardino giapponese siamo circondati dai sudditi della Merkel e non possiamo fare a meno di pensare che solo loro possono permettersi di viaggiare tanto mentre il resto dell’Europa è in ginocchio. Il verde non riesce a farmi scordare del tutto i problemi politici ed economici del vecchio mondo.

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Lo sguardo spazia e finalmente da una siepe emerge l’azzurro del mare. Cosa ci sarà al di là di quel muro vegetale?

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Lo scopriremo la prossima volta.

Cemento e paradossi: benvenuti a Butchart Gardens

Alberi

Alberi

Ricordate quando Celentano denunciava gli strazi ambientali causati dalla cementificazione delle periferie? Quei versi, “mentre lì in centro/ io respiro cemento” li abbiamo cantati tutti almeno una volta nella vita. La distruzione degli spazi verdi evocata con malinconia dal ragazzo della Via Gluck è un capitolo particolarmente scottante della nostra storia recente. Scrittori, registi e cantanti hanno denunciato gli effetti devastatori della proliferazione del cemento nella nostra penisola, nelle campagne, sui litorali. La scomparsa della civiltà contadina, l’industrializzazione, il boom economico con la sua sequela di problemi sociali si associano ad una parola: il cemento, un composto a base di calce indispensabile in edilizia. La dicotomia cemento-natura, speculazione industriale-paradiso perduto è profondamente radicata nell’immaginario di ogni italiano con un minimo di coscienza civile. Ebbene oggi ci avvicineremo ad un paradosso che trasforma e smentisce l’opposizione tra il composto calcareo, con il quale vengono erette case ed edifici e la bellezza incontaminata della natura. Un paradosso che ci riporta alle parole di Guy Debord, “il vero è un momento del falso”.

La storia inizia in una una cava di calce abbandonata.

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Non abbandonate la pagina, ora vi spiego. Torniamo all’epoca della colonizzazione dell’isola quando Victoria all’epoca della febbre dell’oro divenne un fiorente emporio. In quegli anni di profonda trasformazione sorsero diverse industrie, quella del legnamente, tutt’ora in attivo e quella più modesta dell’estrazione della calce da usare nelle opere di costruzione. Si da il caso che un bel giorno Mr. Butchart, figlio di un immigrante scozzese, giunse sull’isola con l’intenzione di dedicarsi all’estrazione della calce per la produzione del cemento da commercializzare nelle città del Pacifico, da Seattle a San Francisco. Erano i primi del Novecento e l’imprenditore canadese insieme al fratello fece una discreta fortuna con il calcare estratto dalle cave della penisola di Saanich a una ventina di chilometri dalla città di Victoria. Gli affari andarono a gonfie vele per anni finché i giacimenti di calce si esaurirono, ma non la fantasia della coppia.

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Se non era rimasto più niente di quella collina calcarea e la zona aveva assunto un aspetto decisamente spettrale non era il caso di disperarsi. Era giunto il momento di far volare la fantasia e chi se non una donna pensava avere l’estro per trasformare un cratere abbandonato in un paradiso terrestre? Entra in azione la Signora Butchart.

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Eh, sì, perché se Robert Butchart era impegnato nel cementificio, la sua gentile consorte, Jeannie Butchart non era rimasta con le mani in mano e quando la cava non ebbe più niente da offrire epa ebbe una fantastica idea: rivestire di meravigliose piante quel paesaggio lunare dall’aspetto sterile e spettrale. Con grande immaginazione, estro e caparbietà, oltre ad un discreto esercito di giardinieri, la Signora Butchart trasformò la zona in un paradiso terrestre, i Butchart Gardens, una delle attrazioni più famose dell’isola e di tutto il Canada.

Trasformazione della cava

Antico cratere

Si tratta di splendidi giardini botanici sorti sull’area dell’antica cava. Il cratere fu trasformato in laghetto, le zone circostanti vennero coperte di terra e seminate con mille piante e fiori diversi fino a creare un’opera d’arte. L’ex miniera a cielo aperto si ricopre di verde, un verde ricreato ad arte per dar vita ad una natura lussureggiante che di naturale non ha proprio niente. Ecco qui il paradosso della bellezza naturale artificialmente creata su un territorio sfruttato per l’estrazione di quel minerale che rese possibile l’espansione industriale nella zona del Pacifico.

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Astuta e visionaria la signora Butchart, non vi pare? Fu lei che con pazienza ripristinò il verde dove ormai non cresceva più niente, che sfruttò le pendenze, gli strapiombi, le voragini per creare un ambiente unico nel quale far fiorire la flora più lussureggiante.

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Passeggiare per questi giardini è come fare un corso intensivo di botanica e scoprire la bellezza di specie sconosciute, importate da paesi lontani o autoctone della zona. Le sequoie, i pini, gli abeti circondano le aiuole, i roseti, il giardino giapponese e persino il giardino all’italiana.

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La guida che ci consegnano all’entrata di questo meraviglioso parco indica che all’interno dei Butchart Gardens si trovano oltre un centinaio di speci vegetali. Scorro le pagine per scoprire i nomi di tanti fiori sconosciuti.

Angels's Trumpets

Angels’s Trumpets

Scopro che questi fiori gialli, già visti a Beacon Hill Park, si chiamano Angels’ Trumpets, nome azzeccatissimo per le trombe celestiali, altresì note come Bugmansia. Fioriscono durante i mesi estivi e raggiungono dimensioni notevoli, un fiore degno di questo enorme continente. “Le trombe d’oro della solarità” immortalate da Montale si rivestono di nuovi significati, forse meno poetici, ma esteticamente piacevoli.

 

Tra le rocce emergono fiori di ogni tipo, begonie multicolori, cestini di piante danno il benvenuto ai visitatori preparandoli per la scoperta di questo paradiso le cui forme e color mutano con le stagioni.

La nuvoletta di Fantozzi a Cowichan Lake

L’ho portata da Genova e negli anni l’ho conservata con cura, o meglio è lei che mi ha seguito instancabile per chilometri e chilometri, peggio del Colombre di Buzzati. Che poi volesse regalarmi un meraviglioso dono finora non ci credo. Forse non abbiamo ancora viaggiato abbastanza per credere nelle virtù terapeutiche della mia nuvoletta, ma so che c’è, che non mi abbandona, che forse è lì per proteggermi dal melanoma, dalle rughe e dalla possibilità che mi dedichi ad una vita spericolata tra spiagge e laghi. Fatto sta che anche durante la settimana più soleggiata e calda dell’estate Victoriana, lei c’era. A volte mi concedeva una piccola tregua, ma non quando abbiamo fatto le valigie per andare a Cowichan Lake con la speranza di fare i bagnanti nelle acque cristalline del lago, eccola lì.

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Questo lago biforcato, stretto e lungo, circondato da pinete e montagne a strapiombo sull’acqua è meta di numerosi vacanzieri che cercano refrigerio dal caldo relativo di altre zone del Canada in acque più tiempide o meglio meno ghiacciate… Refrigerio per chi soffre il caldo già a venti gradi, intendiamoci!  Avete presente fare il bagno a marzo o aprile in Liguria? Più o meno ci siamo.

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Ebbene eccoci qui, costume, asciugamano e infradito. Arriviamo alla spiaggetta e inizia un bel venticello che fa venire la pelle d’oca. “Don’t chicken out!” insiste mio figlio che essendo nato e cresciuto in questo continente è più avvezzo al freddo. Gli ho promesso che mi sarei tuffata, costi quel che costi, e adesso devo tener fede all’impegno preso. Mi armo di coraggio e soffoco un grido disperato appena tocco l’acqua. E’ una sensazione veramente strana, sembra che l’acqua bruci sulla pelle, ma dopo un po’, muovendosi, fa quasi piacere, rinvigorisce l’organismo, sento la ciccia che cerca di battersi in ritirata, come un coniglio selvatico per nascondersi sottopelle e allontanarsi dalla fonte del pericolo. Brava cotenna, io che speravo che in caso di bisogno potesse rendersi utile. Niente da fare. Mentre mio figlio se la spassa guardo con speranza il cielo, se peggiora posso uscire dall’acqua a testa alta per causa di forze maggiori.

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In effettto la nuvoletta mi viene incontro insieme a tante amiche grigie e minacciose. Non resta che riemergere dai flutti e correre subito ai ripari: asciugamano e poi immediatamente a cambiarsi perché il costume olimpionico, adatto sì alla piscina, ha il pregio di intrappolare tonnellate d’acqua. Trovo un capanno per rivestirmi e, magia della termodinamica o della biologia molecolare o forse del caso, scopro che mi sono ristretta di almeno una taglia. Ho le dita rattrapite e l’addome contratto. Mio figlio invece è bello contento e azzarda la possibilità di un ulteriore bagno. Non se ne parla nenache, la mia prova di forza l’ho fatta, il battesimo del lago pure, andale, di corsa al bed and breakfast per una bevanda calda.

Nel frattempo il cielo si è ulteriormente rannuvolato. Nebbia o nuvole? Difficile dinstinguerle, in ogni caso, sole zero, non se ne parla. IMG_20140719_105814

L’indomani mattina piove, risparmiandoci il dubbio amletico se tornare al lago o no. Mi salvo dall’ulteriore bagno, ma non dalla doccia au naturelle. Il passaggio dall’estate all’autunno avviene in modo brusco, non ce ne accorgiamo neanche e già abbiamo indiossato la felpa o il pile. Mi rammarico di non aver portato almeno un paio di pantaloni lunghi perché anche il parmacotto soffre il freddo.

Non ci perdiamo d’animo, facciamo un giro per il porticciolo a caccia di angoli pittoreschi, ma le nuvole la fanno da padrone.

IMG_20140719_105914Si intravvede uno spiraglio, lassù. Che il sole ce la faccia a sconfiggere le nuvole? La speranza dura poco, per oggi niente spiaggia.

IMG_20140719_110253La nuvoletta, una volta attraversato l’oceano, si è adeguata alle dimensioni extralarge del territorio ed eccola che invade il paesaggio con una coltre impenetrabile. Delle montagne resta poco.

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Abbandoniamo Cowichan Lake in cerca di un cappuccino consolatore. Scrutiamo l’orizzonte in cerca della Coffee House più vicina con la speranza che la Illy o la Lavazza siano arrivate fin quassù!

Bad Habits

Penserete che oggi voglia svelarvi gli aspetti più reconditi della mia personalità, che sia in vena di rivelazioni, magari scabrose. Insomma con questa moda di confessarsi on-line o di leggere letteratura erotica, la menzione dei Bad Habits può trarre facilmente in inganno. Cosa avete capito? Vi aspettate un post sulle brutte abitudini, magari della sottoscritta? Neanche per sogno. Mi dispiace deludervi, ma non entrerò nei particolari per dare briglia sciolta agli aspetti più perversi della mia esistenza.

Che brutte abitudini potrei avere da meritare un post? Dovrebbe trattarsi di qualcosa di succulento, di memorabile, di unico e soprattutto di peccaminoso, altrimenti non ci sarebbe gusto. La cultura occidentale, improntata sulla confessione, attribuisce un aspetto consolatorio e liberatorio all’autonarrazione delle trasgressioni e le brutte abitudini rientrano senza dubbio in tale categoria, ma la lingua inglese è truffaldina. Curiosi?

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Gli habits a cui fa riferimento l’insegna non sono le abitudini, bensì la tonaca, l’abito usato dalle religiose. Dunque, magia della lingua, ecco uno splendido gioco di parole,un “pun” intraducibile, magari un po’ blasfemo, ma irresistibile.

Non vi pare di scorgere Verdone? A me la foto l’ha ricordato.

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La tentazione di indulgere in qualche brutta abitudine c’è stata quando ho visto il posto, ma anche qui il Cafe non era un bar caffè come avrei desiderato e per pranzare era ancora troppo presto. Le mie brutte abitudini alla mattina si orientano soprattutto sul dolce. Se ci fossero state delle belle brioche, dei cornetti, dei muffin fatti in casa, degli scone o al limite delle focaccine croccanti sarei caduta volentieri in tentazione, ma il fish and chip non è abbastanza peccaminoso, soprattutto prima delle 11. Torno agli antichi amori, cappuccino e brioche, le brutte abitudini non cambiano.

Genoa Bay, BC

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E tanti sun li Zenoexi,/e per lo mondo si destexi,/ che und’eli van o stan/un’atra Zenoa ghe fan.

Narrava l’Anonimo Genovese che i nostri connazionali, tanto avvezzi a viaggiare per terre lontane, avevano la tendenza a ricreare la loro città natale dovunque si trovassero. Era il XIII secolo e già allora i mercanti genovesi avevano creato un florido impero commerciale per tutta l’area del Mediterraneo. Molto prima che Colombo si accingesse a cercare una rotta per raggiungere l’oriente passando per occidente i marinai e commercianti genovesi si erano sparsi per il mondo e lì dove il caso li aveva portati avevano lasciato tracce del paese natale. Tale tendenza di chi è nato in quella sottile lingua di terra protesa verso il mare non si è esaurita e nei secoli i genovesi hanno lasciato testimonianza del loro passaggio in numerosi porti. Oggi andiamo a scoprire uno dei più remoti e, perché no, recenti: Genoa Bay, sull’isola di Vancouver.

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Si tratta di una piccola insenatura alla quale si giunge per terra o per mare attraverso una strata piuttosto impervia, circondata da una natura praticamente incontaminata, da meravigliose foreste come forse esistevano ancora in Liguria nell’Ottocento. Narra la leggenda che fu un tale Giovanni Battista Ordano, o meglio Giovanni Baptiste Ordano, giunto nella zona nel 1858 a battezzare questa baia isolata con il nome di Genoa Bay in ricordo della città natale. Sembra che la grafia del nome sia stata alterata probabilmente per influenza del francese, fatto sta che Ordano, prospero commerciante della zona, riuscì a lasciare una traccia tangibile del suo passaggio per questa baia.

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Non aspettativi però cattedrali, palazzi o altri insediamenti umani che ricordino lo splendore della Repubblica di Genova, il nome è l’unico elemento che la lega al capoluogo ligure. Poche sono le dimore che sorgono nella zona. La baia è dominata dalle imbarcazioni ancorate nel porticciolo. Qui si viene soprattutto a vela o, se i venti non sono favorevoli a motore. Alcuni arrivano in canoa delle baie vicine, altri giungono in macchina e si fermano a contemplare il panorama.

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Cerco di immaginarmi cosa avrà visto il mio connazionale quando arrivò da queste parti, cosa gli avrà fatto pensare alla sua Genova e viaggio anch’io nel tempo e nello spazio. Lo sguardo spazia verso il mare aperto cercando di capire la bizzarra geografia di questo meraviglioso angolo del mondo, così lontano dalla Liguria, eppure, per certi versi così simile. Penso al monte di Portofino, alle pinete che diradano verso il mare.

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Le nuvole sono di casa da queste parti, ma a tratti lasciano scorgere un cielo più terso. Ecco laggiù che il sole si fa spazio tra le nuvole talora minacciose.

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Comminiamo per il porticciolo e andiamo alla ricerca delle orme del nostro connazionale. Troviamo un piccolo emporio “Store and Marina Office”.

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Entriamo alla ricerca di qualche tesoro che ci ricordi la nostra bella Zena, ci sono magliette, tazze, borse con il logo Genoa Bay Beach, ma credo che siano tutte rigorosamente Made in China. Meraviglie della globalizzazione. Tralasciamo il merchandising e spaziamo con la mente alla ricerca di ricordi della città natale di Ordano.

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Non sembra che il mercante si sia dedicato all’edilizia e ciò si per sé è un fatto positivo, visto come sono finite le nostre coste. Al contrario di quanto è avvenuto dalle nostre parti, la natura è rimasta incontaminata. Gli insediamenti umani sono mimetizzati tra gli alberi. Non esiste il centro storico, non è sorto un paesino dove andare a fare due passi o fermarsi a far la spesa.

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Genoa Bay è piccolissima, impossibile perdersi nel centro, andare a zonzo per i vicoli. Come indica il nome, si tratta di una baia, non di un a paesino. Tutte le attività si concentrano intorno al mare ed il commercio si limita ad un negozietto in cui si possono acquistare cartine geografiche, souvenir e oggetti di prima necessità. Ci si può anche fermare a mangiare qualcosa, ma le trenette al pesto non figurano nel menù. Speravo almeno in un pezzo di focaccia, ma la magia toponomastica non arriva a tanto. Il piccolo ristorante antistante la baia presenta la solita combinazione di panini, hamburger, insalate e minestre, oltre a qualche birra locale, ma decidiamo di non fermarci a pranzare a Genoa Bay. IMG_20140719_123552

Godiamoci il panorama che ha un che di nordico, più che di ligure, non fosse altro per i colori freddi, il cielo tendente al plumbeo. Ecco emergere dall’acqua una strana figura che ricorda un airone.

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Confesso che, nonostante gli sforzi a me la baia fa pensare a Vacanze all’isola del Gabbiani, più che alla mia liguria, ma ciascuno ha i suoi ricordi e vede il mondo attraverso lenti diverse. Però certo se avessi trovato un bel ristorantino con cucina ligure mi sarei fermata volentieri. Niente da fare. Ma per fortuna per ricreare i sapori della nostra terra per fortuna c’è Vittorio che dal suo blog http://vivalafocaccia.com ci indica come fare per ricreare persino la focaccia di Voltri. Corro subito in cucina.

Totem e postmodernità

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Colori brillanti, rosso, nero bianco, le tonalità scure del legno e qualche accenno di verde e di giallo si stagliano contro il rosso intenso di uno dei vagoni della prima ferrovia che attraverò l’isola a partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo quando i colonizzatori europei e asiatici aprirono nuove vie di comunicazione verso il nord boscoso dell’isola. Il treno, la locomotiva di legno che vedete alle spalle dei totem, crea una composizione visiva caratterizzata da forti contraddizioni. Se fosse una poesia sarebbe un ossimoro. Una strana combinazione di elementi contrastanti, il cui significato probabilmente non sia immediatamente visibile.

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Duncan, crocevia del commercio del legname, centro abitato, tutt’ora dominato dall’industria del legno, la logging industry, erige totem, strutture di legno che commemorano la storia, la mitologia, le credenze indigene in un territorio straziato dall’incontro con quell’alterità destinata a dominare per sempre questa terra. I vagoni che trasportavano il legame, costruiti anch’essi in legno, fanno da sfondo ad altri tronchi d’albero che hanno avuto miglior sorte, convertendosi in opere d’arte. Ed ecco il contrasto, tipicamente postmoderno, tra la ferrovia che aprì la via alla colonizzazione e allo sfruttamento delle risorse naturali dell’isola e la cultura indigena che valorizza il legno da cui estrae storie e leggende. La cultura colonizzata, snaturata, marginalizzata, allontanata per sempre dalle forme millenarie del vivere riassunte nei totem, rivive fianco a fianco con gli strumenti usati per neutralizzarla.

Ed ecco la tragica ironia di una cultura che evidenzia ciò che distrugge mentre pare dare spazio a ciò che ha destinato all’estinzione. I totem, come si può leggere nelle didascalie, sono tutti recenti. I depliant informativi che fornisce l’ufficio turistico sono chiari al rispetto, basta riflettere sul loro contenuto per capirne la perversità.

Depliant Totem

E’ il Duncan Business Improvement Area Society in collaborazione con la città di Duncan che sponsorizza i tour gratuiti dei totem e il materiale informativo. Insomma gli uomini d’affari si sono resi conto del valore commerciale e culturale dei totem e hanno deciso di investire per rivitalizzare il centro città e capitalizzare su una forma artistica che il modello capitalistico aveva messo in ginocchio. Da lì l’iniziativa di valorizzare i totem in modo da incrementare l’interesse per le piccole attività commerciali del centro soffocato degli ipermercati e dalle grandi catene che sorgono tutt’intorno. Lungo l’autostrada che attraversa la città non manca niente, tutte le grandi catene da McDonald a Wallmart si sono date appuntamento. I vari i Tim Horton, risposta canadese e proletaria a Starbucks, i fast food e i family restaurant, i ristoranti omologati con cibo industriale plastificato si susseguono lungo la Trans Canada Highway in un’incessante strip mall.

In quel che rimane del centro, in quelle viuzze perpendicolari erette nel secolo scorso, il tempo scorre più lentamente, più a misura d’uomo e la camera di commercio vuole assicurarsi che i visitatori non perdano l’occasione di fermarsi ad ammirare ciò che Downtown Duncan può offrire a chi cerca un modo di vita alternativo a quello della grande distribuzione.

Il depliant dei totem è un tentativo di dare visibilità agli elementi autoctoni, facendo leva sugli aspetti artistici della cultura indigena. Cito: “The city of Duncan has a strong tie with Cowichan Tribes. We border the Cowichan Reserve Landes and our citizens come together in many settings.” La città di Duncan mantiene forti legami con le tribù Cowichan che, come indirettamente si indica, vivono in gran parte nelle riserve, ma si incontrano in città. Deduciamo che fortunatamente l’apartheid non è più in vigore e che il centro urbano costruito dai colonizzatori, non respinge i suoi primi abitanti, ossia le tribù Cowichan da cui prende il nome la zona. L’esperimento delle Residential Schools, che sottrassero i bambini indigeni dalle loro comunità per assimilarli alla cultura anglosassone, fallì miseramente e fu un capitolo particolarmente oscuro della colonizzazione di questo paese. Oggi, nonostante i tentativi di integrare le due culture, è ovvio che quella indigena sopravviva in uno stato di miseria e marginalità. Lo si avverte camminando per il centro ed entrando nei negozi.

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Ci fermiamo a pranzare al Duncan Garage, un Organic Cafe installato in un ex garage a ridosso dei totem.

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Il menù include elementi multiculturali tratti da tradizioni diverse ed elaborati in modo innovativo e vegetariano. Scegliamo un wrap, una quiche e una versione più salutare del famoso Mac ‘N Cheese, commercializzato e reso onnipresente dalla Kraft. Sapori e tradizioni lontani, dal Messico alla Francia, si sposano con il fast food nordamericano, il Mac ‘N Cheese appunto, cercando di riportarlo a livelli accettabili per i palati più “health conscious”, più attenti alla salute alimentare. La pasta con il formaggio è accompagnata da zucchini, funghi, peperoni e cipolle. E’ tutto delizioso, preparato con ingredienti freschi provenienti dalle fattorie locali. Quasi una “10K diet”, una dieta costituita da ingredienti coltivati in un raggio di 10 Km.

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Mi guardo intorno alla ricerca di quell’incontro tra culture di cui si parla nel depliant. I clienti del locale sono tutti rigorosamente di estrazione europea, le chiome dorate, incolte o rasta, accuratamente pettinate o raccolte in trecce vagamente hippy, si confondono tra i tavoli. Il nero corvino delle chiome indigene non appare tra gli amanti della cucina biologica.

Mentre mangiamo continuo a leggere la brochure: “To recognize this union the City has erected over eighty totem poles, most of them concentrated within the Downtown Core.” Il centro storico, quello che si è sottratto dalla proliferazione dei chain stores, le orribili catene che hanno deturpato il paesaggio del continente nordamericano, è fiero della sua cultura come si evince dal seguente brano: “As a result, Duncan is home to one of the most unique outdoor museums in the world. Today our totem poles stand proudly beside our roads, business, and parks –a celebration of an ancient art form and deep-rooted traditions that continue to thrive today!”

I totem, simbolo di una cultura che il governo canadese aveva tentato con impegno di distruggere, troneggiano nelle strade del centro, nella zona dei negozi a conduzione familiare, dei piccoli commerci, dei caffè e dei ristorantini.

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Alziamo la testa e vediamo gli striscioni con il logo del centro città. “Eat, Shop, Play”, leggiamo sul depliant e riconosciamo immediatamente l’eco del bestseller, Eat, Pray, Love, da cui deduciamo che si tratta di uno slogan recente, destinato a sottolineare l’aspetto consumistico della strategia pubblicitaria. Venite a Duncan a mangiare, a fare shopping e a giocare. Non si capisce bene se quel “play” fosse necessario per evocare il più spirituale “pray” o per ricordare la presenza del Casinò. Meglio non indagare. Gli striscioni di tela che adornano i lampioni risaltano gli elementi considerati più importanti nel centro città: svetta il City Hall, palazzo comunale in mattoni rossi, affiancato da una shopping bag di dimensioni gigantesche contenente prodotti locali, verdura, vino e un quadro, per ricordare il mercatino di prodotti ortofrutticoli che si tiene il sabato mattina, il vino prodotto nei vigneti della valle di Cowichan e i prodotti artigianali, oltre agli oggetti in vendita nei dintorni. Spicca poi la tenda rossa e bianca di un ristorantino e da un altro edificio emerge una chitarra perché d’estate ci sono sempre concerti all’aperto nella zona vicino alla stazione in disuso. Quasi nascosto e mimetizzato tra i colori del disegno un piccolo totem, alto la metà della borsa della spesa, per chi avesse dei dubbi riguardo al valore simbolico delle immagini.

Totem Tour per il centro di Duncan, BC

IMG_20140718_133348Per molti di noi la parola totem ha delle reminiscenze psicanalitiche, associata com’è con il tabù nella nota concezione freudiana. Oggi però lasciamo da parte la legge paterna, le pulsioni, l’inconscio e ci addentriamo in un affascinante tour alla scoperta delle leggende indigene che rivivono per le strade di Duncan, il paese dei Totem. Situato a breve distanza da Victoria, Duncan è conosciuto a livello internazionale per la vasta collezione di totem che ornano il centro urbano, ricordando che, nonostante il nome di origine anglosassone, ci troviamo in un centro importante della cultura indigena. Iniziamo il Totem tour e seguiamo le impronte gialle che ci portano alla scoperta dell’arte, dei miti e delle tradizioni locali, reinterpretate da una serie di artisti indigeni che hanno attinto al folklore della zona per dar forma a queste imponenti opera artistiche.

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Siete pronti? Vi avverto che fotografare i totem non è un’impresa facile poiché per apprezzarne la complessità, la bellezza e il significato è necessario andare oltre la visione frontale, osservarli da più lati e soffermarsi a distinguerne gli elementi e la simbologia. Avvicinarsi ai totem con un occhio occidentale è un po’ come cercare di capire un quadro rinascimentale senza nozioni classiche. Abbiate dunque pazienza perché le mie nozioni di cultura indigena sono  alquanto rudimentali.  Per comprendere almeno gli elementi fondamentali della mitologia delle tribù della zona è utile ricordare che ci troviamo non lontano dalla costa, in una zona nella quale gli abitanti vivevano a stretto contatto con le aquile, i corvi imperiali, ossia i raven, le orche, i salmoni, le foche e gli orsi, tutti elementi che ritroveremo in varie combinazioni nei totem.

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Iniziamo dalla piazza principale antistante l’antica stazione ferroviaria, punto nevralgico del paese. Da qui infatti partivano i convogli carichi di tronchi d’albero, destinati al porto di Victoria. L’industria del legname è tutt’ora fiorente, anche se ha perso molto dello splendore del passato. Duncan è senza dubbio un paese di pionieri in cui la cultura locale con i suoi oltre quattromila anni di storia sopravvive alla mcdonizzazione del continente.

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Eccoli che si ergono mestuosi, che allargano le ali stagliandosi contro un cielo azzurro, soleggiato. Come vedete hanno colori splendenti poiché si tratta per la maggior parte di totem intagliati recentemente e in ottimo stato di conservazione. Infatti al contrario delle statue di marmo i totem hanno bisogno di frequenti restauri per mantere intatti i colori e le forme.

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Molti totem fanno riferimento ai molteplici aspetti della cosmologia indigena, senza tralasciare elementi fondamentali dell’esistenza, in primis, alla lotta degli esseri umani per la sopravvivenza. Nel succedersi delle immagini intagliate nel legno leggiamo la complessa relazione tra gli elementi del creato.  Le trasformazioni della vita trovano riscontro nel susseguirsi delle figure che si abbracciano e si sovrastano in queste strutture multiformi.

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Per comprendere la complessità di queste creazioni artistiche iniziamo con la leggenda dell’orca assassina, the killer whale, che divorando i salmoni, alimento essenziale nella dieta delle popolazioni indigene, aveva causato una pericolosa carestia.  Il totem ricorda che grazie alle preghiere e all’intercessione di forze soprannaturali, la carestia fu evitata e la pace e la prosperità tornarono a regnare.

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Ogni totem narra una storia, celebra la relazione tra gli elementi naturali, la convivenza degli esseri umani con le altre forme viventi, con le foche, gli orsi, i salmoni, i serpenti e con gli elementi naturali, senza scordare la spesso difficile convivenza con i colonizzatori.

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Credo che non si possa evitare una lettura politica di questo totem sovrastato dal serpente posto di fronte al palazzo di giustizia.

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Le leggende sono molteplici e le interpretazioni richiederebbero uno studio approfondito che in questo momento non sono in grado di fornirvi. Lasciamoci andare alla contemplazione della loro bellezza.

Ecco in una rotatoria appare uno dei totem più espressivi, dalle tonalità cromatiche più spiccate. Riconoscerete sicuramente le ali dell’aquila che lo sovrastano.

IMG_20140718_140708Proseguiamo per scoprire il totem più largo del mondo. Eh sì perché sebbene di solito i totem siano strutture affusolate, questo costituisce un’interessante eccezione. Vediamolo insieme.

IMG_20140718_140813Si intitola Cedar Man Walking out of the Log ed è stato intagliato in un albero quasi millenario. Secondo la didascalia si tratta di un tronco di oltre 750 anni. Come si può notare a differenza di altri totem, questo conserva la struttura del tronco originale dal quale emerge la testa del capo tribù. Il resto della composizione ha un tono celebrativo che esalta le virtù di una famiglia eminente nella comunità Kwaugu’l.

IMG_20140718_141155Ogni totem è opera di un artista diverso che attinge alle leggende della sua tribù per creare queste opere uniche.

Anche la relazione uomo donna dà origine ad un totem un po’ particolare, meno spiccante degli altri, ma sicuramente interessante. Non fatevi illusioni, l’immagine che sovrasta la struttura rappresenta un uomo, quella al di sotto, una donna. La struttura patriarcale si mantiene, ciascuna vestita con abiti cerimoniali.

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Accanto a questo totem troviamo la statua di Confucio che ricorda il contributo della comunità cinese alla costruzione della ferrovia e della cittadina.

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Infatti se Victoria vanta la più antica Chinatown del Canada, Duncan ricorda i pionieri cinesi che si insediarono nelle comunità dell’interno durante la seconda metà dell’Ottocento.

Ci troviamo in territorio Coast Salish.  Tutta la città, persino il centro commerciale situato a breve distanza dal centro storico, celebra il passato indigeno della comunità Quw’utsun’, di cui si può ammirare il centro culturale.

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Attaversando la strada sembra di entrare in un altro mondo, quello dominato dalle multinazionali impersonali, dal capitalismo più bieco. A meno di cento metri dal Quw’utsun’ Cultural Centre ci imbattiamo in una serie di ipermercati e centri commerciali. Il senso di comunità viene bruscamente interrotto dalla proliferazione di questi nonluoghi. La cultura indigena tenta di riaffiorare imponendosi visivamente sull’insegna di questo shopping mall. Chissà cosa ne direbbe Marc Augé.

IMG_20140718_151634Le stranezze della postmodernità non cessano di sorprenderci, vediamo così che l’enoteca del governo provinciale, il BC Liquorstore, convive con negozi di cellulari, ristoranti giapponesi ed erboristerie, il tutto sormontato dalle immagini dell’arte indigena.

Non resisto alla curiosità, entro a vedere che meraviglie ci riserva la globalizzazione. Il centro commerciale è piuttosto triste, soprattutto in un pomeriggio estivo. Riesco a convincere anche il resto della famiglia a seguirmi. Lo fanno controvoglia. Padre e figlio condividono un profondo rigetto nei confronti consumismo, per non parlare della moda. Li convinco che si tratta di un esperimento antropologico dai risvolti sociologici. Sia ben chiaro che siamo qui per osservare, non per consumare.

La zona ci riserva ulteriori sorprese e tra uno sportello bancario e negozi plastificati si erge un altro totem, questa volta circondato da due statue raffiguranti due indigeni. Tutto intorno si osservano le onnipresenti bandiere canadesi a ricordare chi detiene il potere in questa comunità.

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O pane mio!

Crederete che sia impazzita e che tutta la nebbia dei giorni scorsi inizi a farmi qualche brutto scherzo al punto da non riuscire più a distinguere le note della famosa canzone partenopea. Ebbene l’errore è voluto perché gli sbalzi climatici sono amici della riflessione e tra una nuvola e un raggio di sole ho rimuginato a lungo sui risvolti antropologici e culturali della vita all’estero. Tutti coloro che lasciano per varie ragioni il paese d’origine, sia per scelta, per studio, per amore, per questioni economiche, politiche o religiose, non possono fare a meno di riflettere sulle differenze tra le due culture, soppesando pregi e difetti di entrambe.

 

A rischio di cadere nel banale, credo che le abitudini alimentari costituiscano un bagaglio culturale che ci segue e ci perseguita per il resto della vita. Anche il più inappetente ricorderà le merende dell’infanzia, i piatti più prelibati preparati da una nonna o da una cara zietta, magari un po’ squinternata, ma comunque abilissima in cucina. Per me, che ho avuto la (s)fortuna di avere una madre poco portata per la cucina, uno dei cibi più cari è senza dubbio il pane. Per i popoli mediterranei in generale e per quelli cattolici in particolare il pane ha una valenza spirituale, è un punto saldo nella dieta e nella vita.

 

Impossibile ricordare tutti i proverbi che lo vedono protagonista. Ne scelgo uno spagnolo che mi sembra particolarmente emblematico: “Más largo que un día sin pan” dicono gli spagnoli per riferirsi a qualcosa di lungo e spiacevole, perché una giornata senza pane diventa insopportabile, insostenibile. Da bambina quando qualche rara volta succedeva che ci si dovesse accontentare dei cracker perché era mercoledì e gli alimentari di pomeriggio erano chiusi, mi sembrava che non si potesse cenare. Riconosco che dovevo essere piuttosto insopportabile con tutte le mie lamentele per l’assenza di rosette e libretti.

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Per fortuna mia madre all’epoca era piuttosto paziente e mi lasciava dire. Il destino, che provvede a metterci in riga e farci pagare con gli interessi i capricci infantili, ha voluto che passassi la maggior parte della vita adulta in paesi in cui il pane è sinonimo di gomma piuma: pagnotte rettangolari di una consistenza innaturale avvolte nella plastica trasparente costiuiscono l’alimento base del pranzo, il lunch, praticamente una merenda squallida con qualche schifezza tra due fette di pane spugnoso. Pan carrè, penserete voi e magari vi sembrerà che non sia così male. In effetti molto del pane che si vende da queste parti è peggio, molto peggio del pan carrè.

Entrando in un supermercato qualsiasi in Canada o negli USA si trovano scaffali e scaffali di pane: bianco, integrale, ai cereali, alle patate, alla cannella, all’uvetta, con le fibre, senza grassi, senza sale, senza glutine e chi più ne ha più ne metta. Le marche sono tante, da quelle più economiche a quelle più costose e, in teoria, più salutari, quelle insomma che i miei figli chiamano cardboard bread, perché con così tante fibre tanto vale mettere sotto i denti un bel pezzo di cartone e non se ne parla più. Non posso biasimarli. Io cerco sempre prodotti naturali, ma devo riconoscere che alcuni hanno un sapore veramente disgustoso. Forse fanno bene perché hanno la tendenza a finire nella spazzatura facendoci perdere l’appetito. Ma ci vuol altro perché io mi rassegni alle pratiche ascetiche del digiuno terapeutico.

Il giorno in cui vi racconterò che mi sono sottoposta a un periodo di detox con digiuno prolungato, prenotatemi pure un letto in manicomio. Sarà giunta l’ora di rinchiudermi, avrò perso del tutto la ragione!

Nel frattempo vado in cerca di una panetteria che sforni qualche pagnotta decente, costi quel che costi. Altro che “non di solo pane vive l’uomo”. Non vorrei rasentare il blasfemo e sminuire il ruolo del companatico e delle pratiche spirituali, ma il pane a tavola ci vuole e anche buono. Magari non tutti i giorni, ma ogni tanto il piacere di uno sfilatino è d’obbligo.

Ebbene nelle mie passeggiate per la città e i dintorni mi sono finalmente imbattuta in una panetteria come si deve. Si chiama Fol Epi, prepara baguette e pagnotte con ingredienti biologici e una serie di dolci che non ho mai avuto il coraggio di assaggiare, non per le calorie, ma per i prezzi. Dopo aver sganciato $3.50 per una baguette e altrettanto per un cappuccino, non mi sembra il caso di aggiungerci anche dei dolcetti, altrimenti ci lascio direttamente lo stipendio, anzi me lo faccio addebitare sul conto della panetteria. Non dimenticate che sono genovese, un po’ di economia non fa mai male!

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Ieri mentre tornavo verso casa con la baghette sotto il braccio mi è sfiorata l’idea di calcolare il costo del pane, se lo avessimo preso qui tutti i giorni. Ho immadiatamente schiacciato il rest button, cancellando l’operazione mentale. Meglio non sapere. La tecnica dello struzzo a volte dà buoni risultati. A volte “Ignorance is a bliss” come si dice da queste parti!

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Era una giornata di sole, i più mattinieri avevano già svuotato parte degli scaffali, l’ora della colazione era passata da tempo e i croissant, il pain ou chocolate e le altre brioche erano quasi sparite, ma sono arrivata in tempo per la penultima baguette, guardare per credere!

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