Conversazioni con i tassisti: esperienze a confronto. Londra e dintorni.

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Da qualche anno a questa parte, forse da quando sono diventata mamma, ho iniziato a prendere i taxi con più frequenza. Un tempo li consideravo un lusso e vi ricorrevo solo in caso di estrema necessità. Al di sotto dei trent’anni non ricordo nessun tragitto in taxi degno di nota, con l’eccezione del tassista che schiacciava un pisolino tra le curve della circonvallazione a monte di Genova. “Eh, sa a quest’ora il colpo di sonno” si era giustificato quando mia madre l’aveva apostrofato con piglio deciso. Da allora avevo evitato i tassisti come la peste. Poi con il passare del tempo, ho iniziato ad apprezzare quei tragitti che si sono trasformati in indagini antropologiche se non sociologiche. Niente di meglio di un tragitto in taxi per tastare il polso di un paese. In questi anni sono giunta alla conclusione che in taxi non ci si annoia mai. Alcuni tassisti sono particolarmente loquaci e offrono volentieri consigli, punti di vista, informazioni sulla società e sull’economia locale. Insomma da quando ho scoperto questo aspetto sociologico dei taxisti ho incominciato a spendere più volentieri gli euro, i pesos, o i CUC, persino le sterline. E iniziamo proprio da questa valuta. Si sa che i trasporti in Inghilterra sono particolarmente cari. Magari si trova un volo low-cost per meno di venti sterline, ma poi per arrivare a destinazione se ne spendono ben di più. Cosa deve fare allora un’allegra combricola di quattro persone, due adulti e due bambini? Affidarsi a un taxi, ovviamente. Non solo è più comodo, ma costa decisamente meno rispetto ad altri mezzi di trasporto. Ed ecco che ci accingiamo al ritorno. Dal centro di Londra ci spostiamo verso Gatwick. Alzataccia prima delle 6 per evitare il traffico intenso. Il tassista è loquace ed inizia a spiegarci come funzionano gli orari di lavoro nella City. Insomma se non ci si muove prima delle sette si è fregati. Da lì inizia una serie di considerazioni sullo stile di vita dei londinesi, sulla disintegrazione della struttura famigliare, sul ruolo delle donne lavoratrici. A questo punto sorge un dubbio. Ma da dove verrà il nostro Caronte abituato a traghettare anime tra le bolge di questo traffico infernale? Il tragitto per l’aeroporto è lungo e un po’ distratta dai ragazzi con cui condivido il sedile posteriore azzardo la domanda di rito: “Where are you from?” Non colgo subito la risposta. “Afghanistan?” ripeto quasi a pappagallo con una certa incredulità. A quel punto il mio consorte si irrigidisce. Tre di noi viaggiano con passaporto USA, possiamo far finta di niente, ma l’accento ci tradisce. Mi premuro subito di comunicare che siamo italiani, ma avendo soggiornato per qualche tempo in America marito e figli hanno un accento impeccabile. In ogni caso viviamo in Canada. Non sia mai che il tassista decida di scaricarci al bordo dell’autostrada dimostrando il suo dissenso nei confronti della politica estera americana. In ogni caso prevale la curiosità, quando mi ricapiterà di conoscere un afgano? Probabilmente mai, colgo l’attimo per approfondire un paio di concetti e per indagare sulle condizioni di vita delle donne in un paese così tristemente noto per l’assenza di diritti umani. Ha già fatto capire che non è d’accordo con il modo in cui le madri londinesi educano i figli, lasciandoli in asili nido e scuole materne già all’alba. Ci ha ampliamente illustrato il suo punto di vista sul lavoro femminile, adesso voglio sapere cosa ne pensa della situazione delle donne nel suo paese. Cerco di prenderla alla lontana e dico: “It must be quite different.” Ebbene sì, inizia a sciorinare le differenze, soprattutto per quanto riguarda la famiglia. Concordo e cerco di tastare il terreno. “I imagine some things must be changing even with regard to women’s condition and family structure.” La risposta non si fa attendere. Segue una breve lezione di storia a conferma del fatto che ad invadere l’Afganistan non ce l’ha fatta nessuno, né i russi, né gli americani, per poi lasciarci brasati con un’affermazione perentoria: “No other country respects women like Afghanistan!” Non credo alle mie orecchie. Mio marito cerca di farmi segno per evitare che esprima la mia opinione in merito. Anch’io mi rendo conto che è necessario procedere con tatto e con una certa dose di prudenza, però la cosa mi intriga. Devo saperne di più. Rispondo in stile canadese. “That’s very interesting.” Non serve molto di più per farlo parlare. Ed è tutta una lode per il senso della famiglia della sua cultura e per talebani, che, mi spiega, sono studenti. Continua imperterrito a sottolineare il profondo rispetto che la cultura afgana dimostra nei confronti delle donne, delle quali si fa carico con solerzia, non come gli inglesi che le costringono ad uscire di casa all’alba per andare al lavoro ed abbandonare la famiglia e i figli. Sono sempre più perplessa e, diciamocelo, indignata. So che non è il caso di dire ciò che penso perché dobbiamo assolutamente arrivare in aeroporto in tempo. Guardo con interesse i cartelli stradali, sperando che non manchi molto all’arrivo. Ci imbarcheremo per un volo per Boston, ma questo preferiremmo non dirglielo!

 

Totalmente diversa è stata l’ultima l’esperienza su un taxi londinese. Questa volta arrivavo dalla Spagna per ricongiungermi con il resto della famiglia proveniente dal Canada. Punto di ritrovo un Holiday Inn vicino a Gatwick. Visto che loro facevano circa 9000 Km ed io meno di un decimo, affronto io la circumnavigazione di Londra in autobus e una volta giunta a destinazione mi concedo il lusso di un taxi, unico mezzo per raggiungere il nostro albergo, visto che della navetta gratuita non c’è traccia. Ci ho già messo un secolo per arrivare fin qui, il traffico da Heathrow a Gatwick era particolarmente intenso. A questo punto, volente o nolente, mi arrendo all’evidenza di dover prendere un taxi. Mi stupisce l’aspetto del tassista, capelli biondo scuro e occhi azzurri, decisamente inglese. E’ una specie di reperto archeologico. Strano trovare un autista autoctono tra tutti i pakistani, gli indiani e gli afgani impegnati in tale professione. Sono piuttosto stanca e di malumore. Ho lasciato il sole mediterraneo per ritrovarmi a tu per tu con un cielo plumbeo degno delle migliori giornate victoriane e non sono per niente affascinata da quest’isola così simile a quella in cui vivo. Mi domando perché al resto della famiglia piaccia tanto andare in Inghilterra, ma ormai ci siamo. Mi consolo pensando che tra pochi giorni potremmo tornare al sud, ossia in Liguria. Entro nel taxi e chiedo se posso pagare con la carta di credito. Sono appena arrivata e ho solo pochi euro. Mi pare di notare un gesto affermativo da parte del conducente che si dimostra decisamente poco comunicativo. In spagnolo si direbbe che mi abbia guardato “Con cara de pocos amigos”, con una faccia non proprio amichevole. Non vedo l’ora di giungere a destinazione. Dovremmo metterci meno di dieci minuti, purtroppo però non si può andare a piedi. Emergiamo da un groviglio di autostrade e giunge il momento di pagare. Tiro fuori la carta di credito. “Don’t take credit card” annuncia laconico con un certo astio. Gli ricordo di avergli posto la domanda appena salita sul taxi. Nega caparbiamente. A questo punto gli faccio presente che ci sono solo due soluzioni: 1. Accetta la carta di credito; 2. Aspetta che vada nella hall dell’hotel a ritirare i soldi. Di fronte alla mia logica si spazientisce e dice che può accettare la carta di credito con una maggiorazione del 10%. Acconsento e in perfetto accento cockney, ribatte sprezzante: “And it’s going to be a French credit card!” Capisco che ai suoi occhi rappresento quanto di più odiato dalla perfida albione. Il disprezzo è muto. Non c’è dubbio, sono in Inghilterra.

Stay tuned per la prossima puntata. Destinazione Cuba e lì è tutta un’altra storia.

Nebbia in estate, sole in primavera

Ricordate le suggestive immagini di Sooke che vi avevo mostrato l’estate scorsa? Ebbene in occasione delle vacanze pasquali siamo tornati in questo luogo meraviglioso in cui terra e mare giocano a nascondino. Ricordando l’esperienza precedente, eravamo un po’ perplessi, pronti ad addentrarci nelle brume e, se necessario, rifugiarci in macchina per un pic nic fantozziano. Invece, ecco la sorpresa. In effetti era una situazione tipo Marcovaldo: una bella mattina, due ore di tempo e un pranzo al sacco un po’ approssimato. Avanzi di torta pasqualina senza sfoglia e alcuni stuzzichini. Ma soprattutto c’era la voglia di immergersi nella natura ed esplorare altre zone di questa magnifica costa. Il cartello promette bene, l’entrata del parco è a soli 75 metri di distanza. Male che vada si fa presto a tornare indietro. L’efficienza di un paese si misura anche da questi particolari e il Canada in quanto a parchi e zone verdi non scherza. Allora procediamo senza indugi verso l’Ed MacGregor Park.IMG_20150407_122410IMG_20150407_122624

Francamente il nome MacGregor mi ricorda tanto il contadino sadico di Peter Rabbit, quello che aveva lasciato orfani tutti i coniglietti, Flopsy, Mopsy, Cottontail e, ovviamente, Peter. Ve lo ricordate? La madre gli raccomandava sempre di fare attenzione a non andare nel suo giardino. Beh, noi non siamo in cerca di carote o di altri ortaggi e non abbiamo una bella coda soffice. Entriamo sorvegliati dall’aquila che sormonta la scritta ed è un tripudio di piante e fiori. In primo luogo un bell’arbutus. Sii tratta di un albero sempreverde che cresce nella zona del Pacifico e che ha una corteccia di un marrone rossiccio molto caldo che contrasta con il verde delle foglie. E’ un albero bellissimo. Uno dei miei preferiti, forse perché con le sue chiome frondose rallegra ci tiene compagnia tutto l’ano. A poca distanza una splendida panchina fatta di legno riciclato, ossia di driftwood, quel legno che si raccoglie sulle spiagge dell’isola, levigato dall’azione delle onde e delle maree. Bella, vero? Molto ecologica e in armonia con la natura. Lì dietro scorgiamo il viola intenso delle azalee che crescono rigogliose anche in città. Sono tra le prime a fiorire, però sembra che quelle viola ci mettano un po’ di più a sbocciare, quindi quando quelle rosa iniziano ad appassire, loro si risvegliano. Anche la magnolia rosa inizia a fiorire. E’ una fioritura effimera, bellissima.

IMG_20150407_122819IMG_20150407_122843 IMG_20150407_122828  IMG_20150407_122808IMG_20150407_122906 IMG_20150407_122757 IMG_20150407_122714Intravvediamo il mare in lontananza. Non siamo mai troppo lontani dall’acqua su quest’isola. Eccolo laggiù il mare, dietro a quel teatro in cui si intravvede un gruppo impegnato nel tao chi mattutino. Arte e natura si incontrano in questo borgo un tempo dedito alla pesca e al commercio del legname. Ecco un mosaico che ricorda la storia locale e l’amore per la natura e la cultura. Dove si trova? Indovinate un po’?

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All’entrata di un civilissimo vespasiano. Ebbene sì, guardare per credere.

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Non ci sono dubbi, è attrezzato anche per i disabili. Continuiamo la passeggiata verso la costa. Il percorso è in discesa. Ci avventuriamo per un sentierino in legno che serpeggia in giù fino alla spiaggia.

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Per evitare spiacevoli sorprese un cartello giallo ci ricorda che il percorso potrebbe essere scivoloso in caso di pioggia. Io non ci credevo che si potesse scivolare tanto sul legno, ma ho toccato con mano, anzi con piede e quasi quasi anche con altre parti del corpo quanto possa essere infingardo questo materiale durante o dopo un temporale, per non parlare in caso di ghiaccio. Oggi, però siamo fortunati, il cielo è sereno, si direbbe che non ci sia neanche una nuvola all’orizzonte. O forse no. Eccola lì, fedelissima, che mi accompagna. Per fortuna però che ha fatto la brava e si è tenuta a debita distanza, mentre mi faccio strada tra il verde. 158 giorni di pioggia all’anno si traducono in una fantasia di felci, muschi e licheni. Non poteva essere altrimenti. Ecco i tronchi degli alberi e anche i rami e le radici coperti di muschi.

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Un giorno schiverò un post dedicato unicamente alle radici. Ne ho visto di bellissime. Continuo a scendere, circondata da una natura rigogliosa, fino a raggiungere il mare. Il pontile si estende a perdita d’occhio.

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IMG_20150407_123830  IMG_20150407_123802 IMG_20150407_123725IMG_20150407_123757     IMG_20150407_125536 IMG_20150407_125620IMG_20150407_125529 IMG_20150407_125522

Finalmente capisco perché la chiamano Supernatural British Columbia.

 

 

 

 

 

Riflessioni linguistiche

Vivere all’estero significa anche confrontarsi con una mentalità che si esprime, prima ancora che nei gesti, nelle espressioni linguistiche. Per chi poi alle lingue ha dedicato parecchi anni di studio, il lavoro sul campo risulta particolarmente affascinante. Oggi vorrei riflettere su alcuni modi di dire.

“To be out to lunch” penserete che si tratti di una persona che, come molte, nella pausa pranzo si andato fuori a mangiare. Per un italiano è normale andare in mensa o almeno in rosticceria a prendere qualcosa con i famosi Ticket Restaurant. A proposito, esistono ancora? Insomma se a prima vista questo detto potrebbe risultare innocuo, non lasciatevi  trarre in inganno. Non ci si riferisce ad un impiegato che si è assentato per una sana e meritata pausa pranzo. Nella mentalità protestante, l’etica del lavoro impone che non ci si concedano momenti di piacere per sfamarsi e nutrirsi. Di conseguenza la persona out to lunch, è una persona inaffidabile, sbadata, distratta, uno che non c’è con la testa.

Adesso mi prendo una pausa pranzo anch’io!

Prende corpo il riciclaggio chic

Per alcuni la parola riciclaggio è associata alla raccolta differenziata che in Italia è certamente sinonimo di bidoni gialli, verdi e blu per carta, vetro, metallo, eccetera. Ma si sa, paese che vai usanze che trovi. Ciascuno i rifiuti li interpreta e li classifica a modo suo. Mentre in Italia vige la regola dei cassonetti, in Canada e negli Stati Uniti chi abita in una casetta ha i suoi bidoni e ogni comune dispone di servizi ad hoc per il ritiro di quella che a Genova chiamiamo rumenta. Per anni l’idea della raccolta differenziata e soprattutto della divisione dei rifiuti organici dalla spazzatura è rimasto un concetto un po’ nuboloso. Certo gli ambientalisti più ferventi raccoglievano le bucce delle patate, delle carote, delle banane e le mettevano in appositi contenitori. Qui in British Columbia, la culla dell’ambientalismo, molti avevano un compost pile in giardino. Ci avevo pensato anch’io, ma poi il mio vicino mi aveva raccontato della sua disavventura con i topi e avevo desistito. Con la mia fortuna avrei dato alloggio ad una fiorente colonia di ratti, prima di riuscire a decomporre correttamente gli avanzi della cucina. Nel frattempo a Victoria il consiglio comunale ha passato un’ordinanza a favore della divisione dei rifiuti organici e da allora abbiamo una serie di bidoni e bidoncini dove mettiamo rifiuti di vario tipo. Vediamo, oltre alla spazzatura normale, quella senza speranza, c’è il cesto della carta, poi il bidone per la plastica, il vetro e il metallo, un sacchetto dove metto tutti gli involucri di pasta, cereali, riso, formaggio, insomma le soft plastic da riportare al supermercato. Il polistirolo lo porto in un apposito contenitore in università e le pile in un altro centro di raccolta. I tetrabrik tornano al supermercato per la riscossione di ben 5 centesimi, idem per le bottiglie di plastica e le lattine, ma quelle non le compriamo mai. Tutte le verdure andate a male, oltre a carne, pesce, gusci d’uovo, ecc. vanno nel compost che adesso vengono a prendersi ogni due settimane. Per fortuna che qui non si raggiungono mai temperature mediterranee, altrimenti sarebbe uno sfacelo. Insomma il clima aiuta con la raccolta differenziata, ormai a portata di tutti, non solo dei più convinti. Non è più necessario essere un crunchy granola, tipologia ormai datata, per dedicarsi allegramente al riciclaggio. Lo insegnano a scuola e, meraviglia delle meraviglie, si pratica anche nei templi del consumismo. Insomma si può andare in un centro commerciale e contribuire al benessere del pianeta. Forse esagero, comunque guardate cosa ho visto nel famosissimo Pacific Centre Shopping Mall di Vancouver. Raccolta differenziata!

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Non è solo questo l’aspetto che mi ha colpito dei bidoni. Insomma che anche al mall cerchino di riciclare i rifiuti mi sembra un’ottima idea. Era ora! Pensando alla quantità di bottiglie e involucri, per non parlare di avanzi di cibo che la gente butta via, non ci si può che rallegrare dell’iniziativa. C’è però un aspetto di questa campagna commerciale che mi lascia perplessa e che mi spinge ad una riflessione. Perché femminilizzare la bottiglia di plastica? Perché dar corpo ai rifiuti, perché scegliere una mano decisamente femminile, curata e fidanzata come testimonial della raccolta differenziata al food court? Chi si é occupato del design di questi bidoni aveva un messaggio chiaro: anche tu, donna giovane, bella, glamour, tu che hai le gambe lunghe, che ti sollazzi sui trampoli, hai il tempo di farti la manicure e sei promessa sposa, tu donna metropolitana di classe media, consumista postmoderna e postfemminista, getta la spazzatura nel bidone adeguato. A chi verrebbe in mente di associare una bottiglia d’acqua minerale usata con un torso femminile sinuoso e ammiccante? Perché questo sfruttamento del corpo femminile al servizio del riciclaggio? Perché se i bidoni sono tre e i clienti del mall sono infiniti le uniche mani sono giovani e femminili? Indubbiamente il consumatore a cui si rivolgono i pubblicitari ha un profilo ben definito. E’ un soggetto femminile con un certo potere d’acquisto, una donna splendidamente alla moda che coniuga fashion con raccolta differenziata, prima di diventare la coniuge di un facoltoso uomo d’affari. Una donna non ancora sposata, ma impegnata in una relazione eterosessuale stabile con un uomo benestante è la destinataria dell’annuncio. Non si capisce se gli uomini non buttino la spazzatura e se i bambini non frequentino il mall. Fatto sta che i bidoni si rivestono di forme femminili. Forme, parti di corpi, in un feticismo delle merci ben noto ai consumatori postmoderni, assidui frequentatori di non luoghi urbani. Quest’ennesimo esempio di pubblicità postfemminista  fa riflettere. E mentre il riciclaggio prende corpo, l’uguaglianza di genere finisce nella spazzatura.

Dov’è andato l’inverno? Dove sono andata durante l’inverno?

Se dovessi scegliere un animale con il quale identificarmi avrei solo l’imbarazzo della scelta: bradipo, orso, magari anche un po’ elefante. Insomma una creatura non proprio snella e scattante con una spiccata tendenza al letargo, ormai l’avete capito. Se gli impegni professionali non me lo impedissero, mi rintanerei volentieri al calduccio e non uscirei prima del disgelo. Ovviamente se le finanze me lo permettessero mi trasferirei ai Caraibi, ma purtroppo per ora non c’è scampo agli inverni della West Coast. E così durante i mesi invernali ad andare in letargo è stata la scrittura. Riprendo a giocherellare con la tastiera ai primi raggi di sole primaverile. Il mascarpone è stato decisamente meno pigro di me e tra gennaio e aprile qualche foto l’ha scattata. E per convincervi che qualche volta ho anche messo il naso fuori casa e fuori da Victoria, eccovi qui qualche immagine del viaggio a Vancouver effettuato ai primi di gennaio. Ebbene sì, ci ho messo un po’, ma meglio tardi che mai. Nei mesi invernali la luce si fa tenue e glaciale, le ombre si distendono e conferiscono un aspetto ancora più nordico IMG_20150108_150517al meraviglioso paesaggio che divide l’isola di Vancouver dalla terra ferma. Siete pronti per la traversata? Il traghetto è in partenza.1420787023226

Le nuvole creano atmosfere suggestive e a tratti lasciano intravvedere gli ultimi raggi di un sole che saluta timidamente prima di inabissarsi.IMG_20150108_145201 In lontananza si scorge il Mount Baker, di cui vi avevo parlato durante le gite estive. Lo si scorge in lontananza, dietro a quell’isolotto disabitato.

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Nel breve tragitto da Tsawwassen a Swartz Bay, ossia da Victoria a Vancouver, incontriamo numerosissime isole, alcune splendidamente incontaminate, altre abitate da pochi fortunati che si godono la pace del luogo. Chi è cresciuto nell’affollatissimo capoluogo ligure si sente un po’ sperduto a queste latitudini dove tutto è silenzio.  La bellezza di questi paesaggi mi risulta stranamente inquietante. IMG_20150108_150634

Cosa ci vogliamo fare, sono mediterranea, amo il caldo, il sole e i colori. Chissà per quale strana legge del contrappasso mi ritrovo qui? Chi lo sa, ma comunque riesco ad apprezzarne il fascino, per quanto evanescente. IMG_20150108_151041Il paesaggio cambia in continuazione, le nuvole appaiono e scompaiono. Faccio qualche giro per il traghetto per non perdermi nessun aspetto di questo meraviglioso panorama. Mi muovo rapidamente da prua a poppa insieme a qualche intrepido viaggiatore, la maggior parte fumatori costretti a sfidare le intemperie pur di godersi una sigaretta. Io avanzo a passo spedito per per evitare il congelamento e per cogliere le immagini più suggestive.

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La nebbia non manca quasi mai, per fortuna è giocherellona e il vento dispettoso accorre in mio aiuto. Il traghetto avanza e non oso pensare se questo salvagente possa avere altri usi oltre a quello decorativo. Ho letto che in gennaio la persona media muore assiderata nel giro di pochi minuti. Visto che sono estremamente freddolosa forse avrei un’agonia più breve. Sempre meglio guardare il lato positivo delle cose…IMG_20150108_150704 In caso, il salvagente ce l’hanno messo e mi sembra piuttosto carino. Mi ricorda le lunghe giornate estive e le meravigliose crociere dell’infanzia. Per me, abituata a viaggiare sulle navi della Società Italia, prendere il traghetto è sempre una festa. Certo non sono proprio i transatlantici nostrani, ma il piacere di navigare non si scorda mai. Adoro partire, anche quando le temperature scendono al di sotto del mio livello di guardia. IMG_20150108_150652

 

 

Pasqua dove vuoi

Il tema di oggi è la reinvenzione della tradizione, quindi al consueto Pasqua con chi vuoi, abbiamo sostituito Pasqua dove vuoi. Ebbene dove andare in una splendida domenica di sole? Stufa delle brume invernali e del lavoro abbiamo deciso di deviare dalle tradizioni e driblare olimpicamente la cucina. Risultato? Una Pasqua un po’ insolita e vegetariana per tutta la famiglia con un brunch in piena libertà. Ciascuno si ciba come vuole. Usciamo di casa tutti insieme, cosa rara ormai che i figli hanno raggiunto l’adolescenza. Come da copione i pargoli ci precedono di qualche centinaio di metri, non sia mai che i coetanei li vedano in compagnia dei genitori matusa. La primavera quest’anno è arrivata presto a Victoria e la fioritura dei ciliegi e di altri alberi volge al termine. Io ritardataria cronica, non ho fatto in tempo a scattare foto decenti quando era l’ora. Il 2015 è stato un po’ complicato, ma speriamo che d’ora in poi il fedele mascarpone, ossia smarphone, ribattezzato in stile culinario dal correttore automatico, mi accompagni in giro per la città e per l’isola.

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A poca distanza da casa ci accolgono i fiori e un cielo decisamente azzurro come non vedevamo da un po’. Anche il cane del vicino ne ha approfittato per godersi lo spettacolo.

 

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Facciamo pochi passi ed ecco che ci imbattiamo nel primo ristorante italiano, Il Covo. Il proprietario di origine ligure mi ha spiegato tempo fa che il nome lo ha scelto pensando alle serate passate al Covo di Norest. Non ho idea di come fosse il menù nel famoso locale notturno, ma credo che fosse alquanto diverso. Visto che oggi è Pasqua il French Toast Panettone mi è sembrato fuori stagione. Chissà da quanto tempo ce l’hanno in magazzino quel Panettone che poi fanno saltare in padella imbevuto di uova e latte. Insomma abbiamo tirato avanti, ma uno di questi giorni ci fermeremo anche lì per vedere come si è trasformata la cucina italiana. Per oggi abbiamo altri programmi.

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Vicino al centro altre aiuole piene di fiori colorati attraggono turisti e residenti. Ovviamente i miei teenagers disapprovando l’attività fotografica mammesca si sono tenuti a debita distanza. Nel frattempo ne ho approfittato per immortalare un negozio storico, IMG_20150405_124912Rogers Chocolate, che in occasione delle feste offre sempre vetrine molto curate. Eccolo lì un po’ in controluce il famoso Peter Rabbit che oggi sembra particolarmente impegnato nella distribuzione delle uova. La leggenda dell’Easter Bunny non mi convince. Il connubio conigli uova mi pare un po’ troppo fantasioso, ma per i bambini la Pasqua è sinonimo di caccia alle uova, egg hunt, presieduta dall’onnipresente coniglietto.

 

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Per non dimenticarci che siamo in Canada, eccolo lì anche l’alce che ormai un po’ spennacchiata cerca di adescare i turisti in cerca di souvenir da riportare a casa. Altro scatto e altra sgridata da parte del figlio che un tempo non tanto remoto era solito fermarsi ad abbracciare il simpatico peluche.

 

 

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Proseguiamo la passeggiata e a questo punto, solo la promessa del cibo ci permette di non perdere di vista i ragazi. Siamo quasi arrivati. Ecco l’insegna del ristorante Pagliacci’s.

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Chiunque penserebbe di essersi imbattuto in un ristorante italiano, ma la realtà è molto più complessa. Si tratta di un ristorante di ispirazione cinematografica, il cui menù vanta piatti ispirati a film americani ed internazionali, oltre che a opere letterarie che spaziano dal Don Chisciotte all’esistenzialismo, senza tralasciare Hemingway ed altri rinomati autori. Insomma, avete capito perché mi piace. I proprietari, una famiglia ebrea di New York, mostrano un senso dell’umorismo che non lascia indifferenti e unendo citazioni letterarie e cinematografiche hanno creato un menù unico che unisce la tradizione yiddish dei bagel con la cucina di ispirazione italiana ed internazionale. Insomma, una fusion molto piacevole per un brunch di tutto rispetto. Di solito prendo l’egg-istential, ma oggi ho cambiato. Dopo i bagel offerti dalla casa e accompagnati da cream cheese e marmellata di lamponi ho optato per il Cool Hand Luke, forse perché sono nata nello stesso anno del film, forse perché mi andava di prendere una quiche. Non ho colto il nesso tra il piatto e il film, ma sorvoliamo. Magari qualcuno di voi è più perspicace.

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I miei figli, molto più cinefili di me, hanno scelto Roman Holiday, una pastasciutta con bacon, parmigiano e altri ingredienti vari, allude alla presenza americana in Italia ed una eventuale colonizzazione della nostra cucina. Il ragazzo avrebbe preferito le lasagne, ma erano finite.  Visto che sfiziosi i menù?

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I pancake, che noi italiani associamo sempre a Nonna Papera, sono deliziosi. Li fanno con la ricotta e il limone e devo dire che nonostante abbia tentato di prepararli a casa, non ci sono mai riuscita. Sono davvero una delizia, leggeri e saporiti.

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La mia quiche era il piatto che più si avvicinava alla torta pasqualina, quindi non ho resistito.

 

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Ecco lì un’altra mano che cerca di impedirmi di fotografare i cibi. Ebbene sì avevo detto di non fotografare mai quello che ho nel piatto, ma l’avevo promesso alla mia cara amica Dear Miss Fletcher e le promesse vanno mantenute.

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I ravioli del “Il Postino Always ring twice” coniugano elementi italiani con altri decisamente più yankee, ma il risultato è piacevole. Non so esattamente cosa ci mettano nel ripieno o nella salsa, ma dopo vent’anni all’estero li mangio volentieri, o meglio li assaggio. Notare come vengano serviti con tanto di cucchiaio. Quello noi non lo usiamo, ma il ristorante lo propone, just in case… Le porzioni sono decisamente New York style, più che abbondanti. Sarebbe stato impossibile mangiare anche il dolce. La colomba giace abbandonata sul tavolo dalla sala. Non so se riusciremo ad assaggiarla per cena o rimanderemo a Pasquetta.

Mentre torniamo a casa satolli costeggiando la baia intravvediamo i due battellini che fanno la spola per il centro. E’ ormai iniziata la stagione turistica e così la mia attività creativa. Il letargo invernale è finito.

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